• 06-06-2006

    Estinzione del reato per esito positivo della prova (Tribunale per i Minorenni di Milano- 06.06.2006 –Pres. Est. Dr. Maria Grazia Domanico)

    ESTINZIONE del REATO per ESITO POSITIVO della PROVA (Tribunale per i Minorenni di Milano- 06.06.2006 –Pres. Est. Dr. Maria Grazia Domanico)
    “Il comportamento del minore durante la prova va valutato complessivamente, in relazione a quelle che sono le sue possibilità in quel dato momento, promuovendo in lui una predisposizione al cambiamento ed al passaggio dall’agito al pensato. La non piena adesione al lavoro psicologico non può costituire, di per sé, una valutazione negativa dell’esito della prova. Inoltre, non è pensabile che il risultato positivo o meno della messa alla prova possa essere condizionato anche da fattori esterni (quale, nel caso di specie, la chiusura del centro di mediazione dopo che il minore aveva accettato di incontrare le vittime) ma occorre attentamente valutare soprattutto l’atteggiamento dell’imputato anche nei confronti degli operatori sociali, nell’instaurare con loro un rapporto di fiducia e di reale collaborazione, nonché la serietà e la responsabilità con cui affronta i diversi impegni e problemi che via via s’incontrano nella realizzazione del progetto”
    La sentenza che si segnala ha sancito l’estinzione, per esito positivo della prova, del reato di violenza sessuale commessa dall’imputato di anni 14-15 nei confronti di tre bambini (minori di anni 10) consistita in esibizione del pene e atti masturbatori che l’imputato chiedeva alle vittime di compiere.
    In sede di verifica finale della messa alla prova durata 2 anni, il PM ha richiesto la condanna dell’imputato, valutando negativamente l’esito della prova per la discontinua adesione del minore al progetto, ed in particolare al percorso di sostegno psicologico, punto del progetto, a parere del PM, di fondamentale importanza in relazione alla natura del reato e alla gravità dello stesso.
    Il Collegio perviene viceversa ad una valutazione positiva della prova, come ritenuto anche dagli operatori sociali, la cui motivazione viene tenuta in particolare considerazione.
    Il Tribunale anzitutto enuncia i fondamenti dell’istituto della messa alla prova ed il suo essenziale differenziarsi da una forma di “sanzione alternativa”, in particolare perché non mira ad un’azione ri-educativa, cioè ad una modifica del comportamento, ma ha finalità educative.
    In particolare sottolinea che il progetto elaborato:
    – deve tener conto delle risorse del minore idonee ad instaurare un processo di responsabilizzazione e maturazione e della sua disponibilità al cambiamento;
    – non deve avere un contenuto esclusivamente e rigidamente prescrittivo e può anche essere modificato in itinere da parte del Tribunale;
    – deve essere fortemente personalizzato in modo che sia il più possibile compreso e accettato dal minore, con consapevole partecipazione.
    Con riguardo poi alla valutazione dell’esito della prova, il Tribunale esplicita che:
    – il percorso può avere anche momenti critici;
    – non è pensabile che il risultato positivo o meno della messa alla prova possa essere condizionato anche da fattori esterni;
    – occorre valutare soprattutto l’atteggiamento dell’imputato (il rapporto di fiducia e di collaborazione con gli operatori, la serietà e responsabilità con cui affronta i diversi impegni e problemi).
    Essenzialmente il Collegio afferma che “considerate le caratteristiche dell’agire adolescenziale e le finalità educative della messa alla prova, bisogna quindi valutare gli strumenti e i percorsi che consentano di avviare e di portare avanti (e non necessariamente concludere) un processo di trasformazione”.
    In tale ottica, il Tribunale si sofferma sulla valutazione della prescrizione all’imputato di aderire a un percorso di sostegno psicologico o terapeutico nell’ambito del progetto di messa alla prova, con particolare riferimento al coinvolgimento del minore in reati di natura sessuale.
    Le diverse attività (lavoro, volontariato…) contenute nel progetto possono avviare quei movimenti psichici che motivano una domanda di cura e di uno spazio specifico per il lavoro psichico. Quindi il lavoro psichico può accompagnare e potenziare i compiti previsti dalla messa alla prova, ma è difficilmente valutabile al di fuori dei criteri soggettivi e i suoi effetti possono verificarsi a lungo termine, ben oltre il periodo di sospensione del processo.
    Da tali considerazioni il Tribunale fa discendere il suo interessante orientamento che viene così enunciato: “Non è prescrivibile un percorso psicologico in assenza di una domanda soggettiva che, agganciandosi al transfert, permetta di avviare un lavoro psichico.
    In questo senso, la non piena adesione al lavoro psicologico non può costituire, di per sé, una valutazione negativa dell’esito della prova. Il comportamento del minore durante la prova va valutato complessivamente, in relazione a quelle che sono le sue possibilità in quel dato momento, promuovendo in lui una predisposizione al cambiamento e al passaggio dall’agito al pensato”.
    Il Collegio giunge quindi alla dichiarazione di esito positivo della prova, valutando in particolare:
    – il lungo periodo trascorso dal reato (6 anni) senza subire altre denunce, e l’integrazione sociale del giovane;
    – il fatto che il minore abbia mantenuto sempre l’attività lavorativa;
    – la buona tenuta dell’imputato sui punti del progetto che lo hanno impegnato nel “fare” con riferimento anzitutto all’attività socialmente utile;
    – la sua disponibilità ad intraprendere il percorso di mediazione (non attuato per cause a lui non imputabili);
    – il fatto che le difficoltà incontrate dal minore fossero dovute anche alle scarse risorse personali e familiari;
    – l’opinione degli operatori circa l’importanza di dare al giovane riconoscimento della positività degli sforzi compiuti.

    Il presente provvedimento è stato di recente massimato e commentato da Marilena Colamussi in Famiglia e Minori de Il Sole 24 ore n.1/2007. Il commento inserito nella sezione riservata al tema del mese “responsabilità genitoriale”, analizza in modo completo l’istituto della messa alla prova, partendo dai presupposti dell’accertamento della capacità di intendere e di volere del minore e della responsabilità dell’imputato in ordine al fatto-reato e ripercorrendo poi le modalità applicative della messa alla prova (caratteristiche del progetto, ruolo dei servizi, verifiche e valutazione dell’esito).

    Il provvedimento esaminato risulta interessante sotto più profili:
    – in relazione alla considerazione delle dichiarazioni confessorie dell’imputato, che sembrerebbe avallare l’orientamento giurisprudenziale circa la necessità dell’ammissione dell’addebito da parte del minore per accedere alla messa alla prova (TM Bologna 10.9.1992)
    – in relazione alla valutazione delle risorse del minore con riferimento alla sua situazione non solo personale ma anche familiare/ambientale con conseguente contestualizzazione del fatto-reato e dell’atteggiamento processuale dell’imputato rispetto all’influenza negativa dell’ambiente familiare;
    – in relazione alla rilevanza della disponibilità dell’imputato ad intraprendere il percorso di mediazione (anche dovuta all’atteggiamento di apertura dimostrata dalle famiglie delle vittime): punto della messa alla prova che viene valutato come positivo nonostante la mediazione non sia potuta avvenire a causa della chiusura dell’ufficio.

    La portata innovativa del provvedimento sembra concentrarsi nelle massime sopra riportate che esplicitano in modo chiaro ed analitico l’orientamento del Tribunale per una valutazione dell’esito della prova non basata sulla corrispondenza formale tra quanto prescritto dal TM e quanto adempiuto dal minore, ma sulla osservazione complessiva della personalità del minore e dell’impegno messo in campo dallo stesso: in sintesi il giudizio deve valutare l’avviamento (non necessariamente la conclusione) di processi di trasformazione che indichino la attivazione o riattivazione del percorso di crescita.

    In particolare, poi, la sentenza mette argutamente in luce la contraddizione in termini che sta alla base della “prescrizione” e della valutazione dell’“adempimento” da parte del minore del percorso di sostegno psicologico ai fini dell’esito della messa alla prova. Il minore può essere in grado di aderire a tale percorso solo nel momento in cui abbia maturato una qualche domanda di cura ed i risultati del percorso possono essere valutabili in un tempo di gran lunga successivo al termine del percorso di messa alla prova.
    In tale ottica il percorso psicologico può essere proposto al minore, come occasione per avviare quella domanda di cura, in aggiunta alle attività previste nel progetto, ma non potrà, da solo, motivare la valutazione negativa o positiva dell’esito della prova.

    (Tribunale per i Minorenni di Milano, Sentenza 6.6.2006 Pres. Est. Dr. Maria Grazia Domanico)

    Conclusioni delle parti
    P.M.: esito negativo della messa alla prova; applicazione art. 98 c.p., attenuanti generiche, ultimo comma art. 609 bis, anni due di reclusione. In subordine perdono giudiziale.
    difesa: estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova.

    ESPOSIZIONE DEI MOTIVI

    M è stato rinviato a giudizio con decreto in data 3.3.2003 del GUP in sede per rispondere dei reati continuati di cui agli artt. 609 bis, 609 ter u.c. c.p. commessi ai danni di A, B e C, tutti minori degli anni 10, meglio descritti nel capo di imputazione.
    Nel corso dell’udienza dibattimentale del 9.12.2003, sull’accordo delle parti, venivano acquisiti al fascicolo del dibattimento i verbali di escussione dei tre minori parti lese con trascrizione della videocassetta, nonché i verbali delle dichiarazioni rese da H F (madre di B), L R e P R (genitori di C), R L (madre di A), M A (nonna di A), N E (madre di M N). Il processo veniva quindi rinviato all’udienza del 9.3.2004 per l’esame dell’imputato, richiesto dal PM, disponendo il Collegio la presenza degli operatori psicosociali competenti per il Comune di M e incaricando l’USSM di Milano di collaborare con i servizi territoriali per una presa in carico dell’imputato.
    All’udienza del 9.3.2004 si procedeva all’audizione degli operatori e all’esame dell’imputato. Quindi le parti concludevano concordemente richiedendo la sospensione del processo per la messa alla prova dell’imputato.
    Con ordinanza emessa all’esito dell’udienza il processo veniva sospeso ai sensi dell’art. 28 DPR 448/88 per la durata di anni due sulla base del progetto elaborato dai Servizi e discusso in udienza, progetto che prevedeva:
    • lo svolgimento di attività lavorativa da parte dell’imputato
    • colloqui psicologici con il dr. D, valutando eventuale psicoterapia
    • colloqui di verifica e sostegno con l’Assitente Sociale
    • attività di volontariato da individuarsi da parte dei servizi in accordo con l’imputato
    • attività di sostegno e di verifica con la famiglia da parte dei Servizi
    • delega al G.O. Maria Cristina Calle a seguire l’andamento della prova ex art. 27 4° comma disp. att. con colloqui periodici di verifica con il minore e gli operatori.
    Si svolgevano quindi presso questo Tribunale colloqui di verifica con il G.O. delegato, alla presenza anche degli operatori e, in taluni incontri, anche del difensore, nei giorni 18.6.2004, 26.11.2004, 10.6.2005, 5.10.2005 e 7.4.2006.
    Veniva infine fissata l’odierna udienza ove sono stati discussi gli esiti del periodi di prova ed il contenuto delle relazioni trasmesse dagli operatori. All’esito, le parti hanno concluso come in epigrafe trascritto.
    Ritiene il Collegio che la responsabilità penale dell’imputato in ordine ai reati ascrittigli risulti dall’esame della documentazione acquisita sull’accordo delle parti, nonchè dalle dichiarazioni stesse del M, di contenuto parzialmente confessorio, rese all’udienza dibattimentale del 9.3.2004.
    Va premesso che il reato si inserisce, come hanno rilevato gli operatori “…in una dimensione di faida familiare allargata, dove…pare siano state fatte altre denunce e querele”. È emerso, infatti, come tra la famiglia dell’imputato e i familiari delle vittime vi fossero da tempo conflitti, la cui natura ed entità non è stata chiarita. L’atteggiamento dei familiari del M ha infatti negativamente influito, inducendo nel ragazzo un atteggiamento di totale chiusura e negazione rispetto ai fatti, almeno fino all’udienza del 9 marzo 2004. Peraltro va sottolineato che i genitori delle vittime, a mezzo del difensore, hanno voluto rappresentare al Tribunale che non era loro desiderio che si pervenisse alla condanna dell’imputato, richiedendo, piuttosto, che egli fosse adeguatamente seguito da operatori specializzati, essendo rimasto per troppo tempo senza che si fosse proceduto ad alcuna valutazione (in effetti sollecitata in sede dibattimentale) ed essendo vittima di atteggiamenti inadeguati da parte dei familiari. In particolare, nella memoria depositata ex art. 90 c.p.p. in data 15 aprile 2003, il difensore delle parti lese scriveva “…Ribadendo la necessità di una costante valutazione delle condotte di M, si ricorda di aver evocato…anche l’applicazione della messa in prova, evenienza che le scelte difensionali hanno forse allontanato dallo scenario di possibili esiti processuali, ma nei cui confronti si ribadisce… una valutazione positiva. E ciò tanto più ove si consideri la particolarità del reato contestato; reato che si realizza attraverso una condotta spesso sintomo di confusione rispetto alla propria identità, di ignoranza rispetto ai fenomeni della vita, di vuoto rispetto a un proprio progetto di crescita. …si fa presente, con forza, la necessità che M non sia lasciato solo…ad elaborare la pesante vicenda che lo coinvolge e che il Giudice …voglia disporre un congruo progetto di valutazione e accompagnamento dell’imputato, con un’adeguata diagnosi, anche ambientale. Tutto ciò come elemento indispensabile al raggiungimento degli altri obiettivi che il Tribunale per i Minorenni si pone: recuperare … il soggetto in età evolutiva che deve affrontare da protagonista il processo penale accompagnandolo sino alla comprensione intellettuale ed emotiva della gravità del momento. Tutto ciò con evidente vantaggio certo per l’imputato ma anche per i ragazzini fatti oggetto delle sue sciagurate attenzioni”. Questo ammirevole atteggiamento delle vittime, di cui va dato loro atto, e che è stato interamente rappresentato all’imputato nel corso dell’udienza, ha presumibilmente contribuito a sollecitare in M un movimento interiore che lo ha indotto a rilasciare dichiarazioni di contenuto confessorio (sia pure tendenti a ridimensionare i fatti rispetto a quanto denunciato dai bambini) e ad accedere ad un progetto di messa alla prova. Nel corso della prova, inoltre, in particolare nella fase finale, vi è stata una apertura molto importante da parte di M: dopo alcuni colloqui con gli operatori dell’USSM il giovane si è dichiarato favorevole ad iniziare un percorso di mediazione penale, incontrando le vittime, fatto che era ritenuto di fondamentale importanza sia dal Tribunale che dagli operatori . Pertanto l’équipe ha cercato di reperire una risorsa, sia sul territorio di Como che a Milano, segnalando la situazione all’Ufficio di Mediazione Penale (che a Milano aveva però da poco interrotto la sua attività), senza peraltro riscontri positivi.
    Tale mancanza di risorse è, a parere del Tribunale, fatto molto grave e ha determinato, nel caso di specie, una battuta d’arresto negativa del progetto che certo non può essere attribuita all’imputato.
    Per quanto riguarda i fatti contestati, con comunicazione del 27.9.2000 la Questura di Como, Ufficio Denunce, trasmetteva querela formalizzata da R L (madre di A) nei confronti di M in quanto il precedente giorno 25 era venuta a conoscenza dal figlio che lo stesso da tempo “giocava” con M all’interno di un garage, alla presenza anche del suo amico B, e che il gioco consisteva nell’abbassarsi i pantaloni e toccarsi nelle parti intime. A precisava poi che tutti si abbassavano i pantaloni e i più piccoli dovevano “toccare” M, e così dicendo mimava il gesto della masturbazione. Alle domande della madre il bambino riferiva poi di aver giocato due o tre volte e che una volta era presente anche C. La denunziante accertava quindi che anche la madre di C, ovvero L R, era a conoscenza di ciò, tanto che sorvegliava il figlio per evitare che si appartasse con M. La R L veniva poi a conoscenza dalla propria madre, M A, che qualche mese addietro A le aveva raccontato che M si era abbassato i pantaloni mostrando ai bambini i suoi genitali. In una occasione la nonna aveva anche notato il garage chiuso dall’interno e, ai suoi richiami, erano poi usciti M con due bambini, tra cui il nipote. Tali circostanze venivano confermate da M A (vedi verbale SIT 25.10.2000). A riferiva poi alla madre che erano obbligati a fare ciò altrimenti “erano calci in culo”. Sentito dal PM alla presenza della psicologa (audizione videoregistrata e trascritta ed acquisita al fascicolo del dibattimento sull’accordo delle parti), A, con fatica, confermava che M chiedeva a lui e a B di tirare giù le mutande, cosa che faceva anche lui; quindi si faceva toccare il pisellino che era “grosso così come un cannone”; anche B glielo aveva toccato (e A mimava il gesto della masturbazione). Quando erano con M giocavano anche con il Lego o altri giochi. Precisava infine che c’era anche C. Sentita il 16.1.2001 dalla PG in sede su delega del PM, la signora R precisava di aver portato il figlio da uno psicologo che l’aveva tranquillizzata, non rinvenendo la presenza di segnali traumatici nel minore che, in effetti, a detta della madre e anche delle maestre, appariva nonostante tutto sereno.
    F H, madre di B, sentita dalla PG il 25.10.2000, riferiva che un mese addietro il figlio B le aveva riferito che mentre si trovava nel garage della famiglia di M in compagnia di M, questi si era abbassato i pantaloni e dopo avergli mostrato i genitali gli aveva chiesto di baciargli il pene, cosa che B si rifiutava di fare. Si diceva quindi preoccupata del fatto che il figlio continuasse a frequentare M ma precisava che, d’accordo con il marito, non aveva voluto denunziarlo. Sentito dal PM B confermava che M gli aveva fatto “toccare il pisellino”.
    P R, padre della parte lesa C, sentito dalla PG il 30.10.2000, riferiva che il figlio era solito frequentare M. Cinque anni addietro aveva personalmente notato che il figlio, che aveva allora cinque anni, si trovava con M sotto la tettoia del magazzino di sua proprietà; avevano entrambi urinato nel tombino e quindi si erano mostrati a vicenda i genitali; in quella occasione aveva sgridato suo figlio e anche il padre di M aveva sgridato il figlio. Non aveva quindi dato peso all’episodio. Il 24.1.2001 la signora L R, madre di C, riferiva alla PG che il figlio le aveva raccontato che quando andava a casa di M per giocare con il Lego e la Play Station capitava sempre che M si tirasse giù i pantaloni e le mutande, dicendo ai bambini che se volevano giocare avrebbero dovuto accarezzargli i genitali. Anche loro, in alcuni casi, su proposta di M si dovevano spogliare per permettere a quest’ultimo di poterli a sua volta toccare. Il figlio si vergognava nel raccontarle questi episodi, cercando di cambiare argomento di fronte alle sue domande. Erano stati contattati anche i familiari del M per risolvere in modo non traumatico questa vicenda. Peraltro la sorella del M, contattata dalla madre di C, si era presentata con il fratello dicendo “diglielo che non è vero, perché sennò sono io la prima che ti spacco la faccia”. Ovviamente a M non veniva data alcuna possibilità di spiegare ed il ragazzo negava di essere stato autore delle molestie sessuali nei confronti dei bambini. Sentito dal PM anche C confermava che M diceva a lui e ad A, quando andavano a casa sua, di tirarsi giù i pantaloni e di toccargli il pene e anche baciarlo se volevano giocare. Ha poi confermato che c’era anche B e che era successo tante volte. Una volta era anche capitato che gli strofinasse il pene dietro al sedere (v. pag. 96 trascrizioni).
    Durante l’esame l’imputato ha dapprima negato decisamente i fatti, poi ha affermato che i bambini potevano averlo visto mentre faceva la pipì, quindi ha precisato che lui avrebbe anche potuto dire “che cos’è che continui a guardare, lo vuoi vedere, lo vuoi prendere in mano?” “Io non volevo fare del male a nessuno” ha quindi detto. Infine è sembrato assumersi maggiori responsabilità rispetto ai fatti.
    La piena capacità d’intendere e di volere del giovane, quattordicenne e quindicenne all’epoca dei fatti, emerge dalle sue buone capacità intellettive e critiche in relazione alla natura del reato, valutato il notevole divario di età tra l’imputato e le parti lese, nonchè dalle modalità di commissione dei fatti rafforzati anche da frasi minacciose (in quanto se non avessero fatto quanto lui diceva “erano calci in culo”, oppure, se volevano giocare al Lego e alla Play Station dovevano sottostare alle sue richieste).
    All’odierna udienza sono stati sentiti gli operatori che hanno illustrato la relazione conclusiva del periodo di prova.
    Nel motivare la sua richiesta di condanna dell’imputato il PM ha valutato negativamente l’esito della prova, in particolare osservando che non vi è stata piena adesione da parte del ragazzo a tutti i punti del progetto di messa alla prova sopra indicati; M, ha precisato la Pubblica Accusa, è stato soprattutto discontinuo nell’aderire al percorso di sostegno psicologico, punto del progetto, a parere del PM, di fondamentale importanza in relazione alla natura del reato e alla gravità dello stesso.
    Il Collegio non concorda con tali valutazioni, ritenendo che debba viceversa pervenirsi ad una valutazione positiva della prova, con conseguente dichiarazione di estinzione dei reati, come ritenuto anche dagli operatori che hanno seguito per due anni il minore e la cui motivazione va tenuta in particolare considerazione.
    Giova premettere in via generale che, nell’elaborare un progetto ai fini di una sospensione del processo per messa alla prova, occorre soprattutto valutare se nell’imputato vi siano risorse sufficienti per intraprendere una reale processo di responsabilizzazione e maturazione e se vi sia da parte sua una disponibilità al cambiamento e dunque non una mera adesione formale a prescrizioni non sufficientemente comprese e accettate. Il progetto di messa alla prova non dovrebbe quindi avere un contenuto esclusivamente e rigidamente prescrittivo, quasi si trattasse di una forma di “sanzione alternativa”, ma dovrebbe prevedere attività nel campo dello studio, lavorativo, del tempo libero, dell’impegno sociale o di riparazione verso le vittime, progetto che deve essere il più possibile compreso ed accettato dall’imputato e che può anche essere modificato in itinere da parte del Tribunale. I progetti devono essere dunque fortemente personalizzati: essi non sono un insieme di prescrizioni rigide scelte dal giudice, bensì una proposta di lavoro elaborata dagli operatori psicosociali con la consapevole partecipazione del minore che intende dimostrare la sua volontà di cambiamento. Si tratta di un percorso che certo può avere anche momenti critici proprio perché è molto impegnativo per un’adolescente che abbia commesso un reato; inoltre non è pensabile che il risultato positivo o meno della messa alla prova possa essere condizionato anche da fattori esterni (quale, nel caso di specie, la chiusura del centro di mediazione dopo che il minore aveva accettato di incontrare le vittime) ma occorre attentamente valutare soprattutto l’atteggiamento dell’imputato anche nei confronti degli operatori sociali, ovvero se sia riuscito o meno ad instaurare con loro un rapporto di fiducia e di reale collaborazione, nonché la serietà e responsabilità con cui affronta i diversi impegni e problemi che via via s’incontrano nella realizzazione del progetto.
    Una particolare riflessione merita la prescrizione all’imputato di aderire a un percorso di sostegno psicologico o terapeutico nell’ambito del progetto di messa alla prova, con particolare riferimento al coinvolgimento del minore in reati di natura sessuale.
    La novità evolutiva dell’adolescenza è data dall’incontro con il territorio reale della sessualità. L’adolescente, nell’inizio della sua vita sessuale, incontra la possibilità di mettere in atto quanto la fantasia del bambino è andata prima elaborando. L’avere a che fare con la materia sessuale lascia aperti, per l’adolescente, margini di non pensabilità che si traducono, a volte, nelle modalità di un agire fase-specifico. Quando la modalità dell’agito prevale, arriva anche a configurarsi in atti illeciti.
    L’espressione diretta dell’agire illecito nell’ambito della sessualità, sconfinando dallo spazio della fantasia, rappresenta una sorta di corto-circuito nel procedere della pensabilità della propria sessualità.
    Le risposte penali ai reati degli adolescenti introdotte dal DPR 448/88 trovano fondamento nell’intenzione del legislatore di uscire dalla logica storicamente dominante di “sorvegliare e punire” e di costruire spazi che consentano di ridare senso alle azioni apparentemente insensate degli adolescenti.
    In questa direzione le innovazioni del processo penale, tra cui soprattutto la messa alla prova, devono poter avviare un processo di trasformazione degli agiti in pensiero, dare spazio a una revisione delle scelte che l’adolescente ha messo in atto attraverso l’agire in una risposta alle questioni che il crescere propone e, in un certo senso, impone.
    La messa alla prova non mira pertanto ad un’azione ri-educativa cioè ad una modifica del comportamento ma ha finalità educative. E’ la posizione del soggetto nel mondo che deve poter trovare altre modalità di elaborazione e di costruzione, anche attraverso la trama dei diverse rapporti umani. In questo senso dovrebbe intendersi la possibilità offerta al giovane di recupero sociale, conciliandola con l’esigenza della prevenzione generale e della prevenzione speciale. Certamente, quindi, una preoccupazione rilevante nella costruzione del progetto dev’essere quella di lavorare per la eliminazione della possibilità di recidiva. Considerate le caratteristiche dell’agire adolescenziale e le finalità educative della messa alla prova, bisogna quindi valutare gli strumenti e i percorsi che consentano di avviare e di portare avanti (e non necessariamente concludere) un processo di trasformazione.
    Quando le risposte dell’adolescente, attraverso l’agito, restano immischiate nei meccanismi di negazione della soggettività dell’altro, come avviene nei reati a carattere sessuale, si tratta di delineare le condizioni e gli spazi che consentano di recuperare la pensabilità del processo psichico di crescita. La costruzione delle proprie condizioni di vita attraverso lo studio o il lavoro, le attività socialmente utili e la mediazione penale offrono inoltre un percorso visibile – anche e soprattutto all’imputato – e valutabile dell’impegno nei confronti dell’altro. Ciò consente di avviare concretamente, e coerentemente con analoga tendenza a privilegiare la via dell’agire, la possibilità di ricostruire e rispettare l’altrui soggettività e di procedere nella costruzione della propria.
    Queste attività, che rappresentano una via indiretta e simbolica alla pensabilità delle relazioni con l’altro, possono avviare quei movimenti psichici che motivano una domanda di cura e di uno spazio specifico e delimitato per il lavoro psichico. Questo lavoro può accompagnare e potenziare i compiti previsti dalla messa alla prova, ma è difficilmente valutabile al di fuori dei criteri soggettivi e i suoi effetti possono verificarsi a lungo termine, ben oltre il periodo di sospensione del processo.
    Perciò non è prescrivibile un percorso psicologico in assenza di una domanda soggettiva che, agganciandosi al transfert, permetta di avviare un lavoro psichico.
    In questo senso la non piena adesione al lavoro psicologico non può costituire, di per sé, una valutazione negativa dell’esito della prova. Il comportamento del minore durante la prova va valutato complessivamente, in relazione a quelle che sono le sue possibilità in quel dato momento, promuovendo in lui una predisposizione al cambiamento e al passaggio dall’agito al pensato.
    Venendo quindi alla valutazione complessiva della messa alla prova, il Collegio osserva innanzitutto come i reati siano stati commessi dal luglio 1999 al settembre 2000, ovvero tra i 14 e i 15 anni dell’imputato, che oggi ha 21 anni. Successivamente ai fatti lo M non ha subito altri procedimenti penali, non ha altre denunzie a proprio carico, ha sempre svolto attività lavorativa e appare socialmente ben integrato. Infatti vi è stata una buona tenuta dell’imputato rispetto ai punti del progetto che lo hanno impegnato nel “fare”. È vero, come sottolineano gli operatori, che l’attività socialmente utile (che si è svolta presso due case di riposo che si occupano di persone anziane) ha rappresentato l’elemento principale della sua messa alla prova. Infatti M ha iniziato il progetto presso l’RSA nel giugno 2004 con una frequenza bisettimanale. Gli operatori avevano valutato le possibili difficoltà che M avrebbe potuto incontrare nella relazione con gli anziani, a causa della sua storia personale, e pertanto si erano stabiliti alcuni obiettivi a medio e lungo termine. Inizialmente il ragazzo avrebbe dovuto imparare a rispettare le regole, confrontandosi con la struttura che gli aveva offerto anche la possibilità di instaurare nuove relazioni con coetanei (volontari e tirocinanti). Un altro obiettivo era quello del confronto con un mondo maschile non idealizzato (padre deceduto) nè persecutorio (liti persistenti tra la famiglia e i vicini di casa). Subito si manifestavano le prime difficoltà di M nella relazione con gli anziani in quanto il ragazzo difficilmente interagiva con le persone. Dopo i primi mesi M iniziava a non rispettare gli orari quindi veniva deciso un maggiore monitoraggio nel corso del quale il ragazzo esplicitava finalmente le proprie preoccupazioni e difficoltà legate essenzialmente al rapporto con gli ospiti e alla risonanza interna che le persone anziane avevano su di lui. Veniva quindi prevista una attività di volontariato presso altra casa di riposo in Como, con mansioni più concrete e pratiche da parte di M. Quest’attività veniva maggiormente accettata dal ragazzo che riusciva a svolgere con puntualità e in maniera costante il lavoro proposto. Pur essendo stati difficoltosi i colloqui con gli operatori in relazione ai suoi comportamenti e agli eventi di cui è imputato, si era tuttavia pervenuti ad una importante apertura del M quando aveva accettato di intraprendere un percorso di mediazione penale, non potutosi realizzatosi, come sopra detto, per cause indipendenti dalla sua volontà. In relazione all’attività lavorativa M ha sempre dimostrato puntualità e precisione nello svolgimento dei compiti.
    In conclusione gli operatori, pur consapevoli delle difficoltà incontrate nel percorso di messa alla prova e della fatica del ragazzo di portare a termine gli impegni per lui più gravosi, dovuti anche alle scarse risorse personali e familiari, ritengono che sia importante che venga riconosciuta al giovane la positività degli sforzi compiuti e dell’impegno dimostrato soprattutto nell’ultimo periodo.
    Il Collegio concorda con tale valutazione e, anche per quanto sopra motivato in via generale, ritiene debba essere posto un giudizio positivo sull’esito della prova con conseguente estinzione dei reati.
    P.Q.M.
    visto l’art. 531 c.p.p., 29 c.p.p.m.,
    DICHIARA

    Non doversi procedere nei confronti di M in ordine al reato ascrittogli perchè estinto per esito positivo della prova.

    Milano, 06.06.2006
    Il Presidente est.
    Dr. Maria Grazia Domanico

    Documenti allegati: ESTINZIONE del REATO per ESITO POSITIVO della PROVA_2